Viaggiare &
raccontare
Siamo tutte Oriana Fallaci !
Sono la
protagonista di un’avventura partita sull’onda della solidarietà e coronata da
una vera e propria legittimazione. Una
storia iniziata nella primavera del 2014 quando ideai il progetto “I Reportage
di Donna Reporter: diamo voce e visibilità alle donne che in Asia stanno
cambiando il mondo”. La consuetudine vuole che una reporter scriva un reportage
dopo che le è stato commissionato da un giornale o una rivista. Nel mio caso, i
commissionari sono state una trentina di finanziatrici che, nel maggio 2014,
hanno aderito alla proposta di co-produrre i miei reportage in Asia.
Un po’ Oriana Fallaci un po’ Margaret Mead
Ci sono tanti modi
di essere una reporter, lo stile più famoso per tanto tempo è stato quello di
Oriana, uno stile provocatore, acuto, abile nel tratteggiare il profilo dei
suoi interlocutori attraverso immagini e dettagli, tanto da essere studiato
nelle scuole di giornalismo delle università americane, una conquista
importante per una donna allora come oggi. Ho trovato la mia ispirazione
nell’esempio di Oriana e anche in Margaret Mead, la più nota antropologa
americana del Novecento. Margaret si rifiutò di scrivere i suoi resoconti dalle
isole Samoa esclusivamente con il linguaggio accademico che si richiedeva
allora, a chi come lei tornava dopo mesi di ricerca sul campo; scelse così di
scrivere i suoi primi resoconti anche in un linguaggio accessibile a tutti. Si
era nel lontano 1928 e grazie alla sua scelta, l’antropologia nei decenni a
seguire usciva dal ristretto circolo degli accademici per diventare “pane per
tutti”. Molte persone, attraverso i suoi libri, sono venute a conoscenza dei
costumi delle giovani samoane, imparando, com’era nelle intenzioni di Margaret,
che molto di quello che noi pensiamo sia “naturale”, frutto della “biologia” o inerente alla
razza, come “qualcuno” andava dicendo in quei tristi anni che precedettero l’olocausto,
in realtà è dato dalla cultura in cui siamo nate e le differenze tra le razze
sono di ordine culturale. Se l’esempio di queste due donne, Oriana e Margaret,
ognuna pioniera nel suo campo, da una parte mi ha ispirata, mi ha anche
ricordato che io non ero né una reporter né un’antropologa, alimentando quella
barriera interna che mi diceva: “Non sei qualificata per fare quello che stai
facendo!” In quel frangente ho ritrovato il coraggio dicendo a me stessa
che le qualifiche mi venivano riconosciute dalle trenta donne che
credevano nella validità del progetto e lo avevano finanziato. La risposta
entusiasta e solidale delle mie finanziatrici ha creato una tale energia, come
un’onda lunga che mi ha trasportato per mesi sollevandomi rapida e forte.
Sperimentare in prima persona l’effetto della solidarietà è stato rigenerante,
un vero e proprio caso di “legittimazione” empowerment al femminile.
L’arte della reporter
Porto con me
molti tesori raccolti nei mesi di praticantato come reporter a Bali. Penso che
in un tale lavoro possiamo sì ergerci a testimoni di quanto andiamo vedendo
prima e raccontando poi, ma sempre sostenute dal nostro sapere e dalla nostra
formazione, confidando nel sano istinto, lasciandoci guidare dall’intuito. Alla
guida dell’agire, a mio avviso, sia sul campo che quando lo scritto è pronto,
non può esserci il desiderio incondizionato di “farcela ad ogni costo” perché
si diventa vulnerabili all’illusione, ci si espone all’inganno e
all’auto-inganno. Al contrario è vitale rimanere al centro di se stesse e
riguadagnare la posizione non appena la si perde. Le mie fonti d’ispirazione
giovanili Oriana e Margaret sono state il motore propulsivo del progetto, poi
una volta sul campo ho imparato che la passione per una idea non ha bisogno dei
“requisiti”, delle “qualifiche” per essere portata a termine. Ho dovuto
ricredermi, i requisiti non erano dove pensavo, cioè nei titoli accademici o
nelle credenziali professionali, ma erano di natura totalmente diversa. Avevano
a che fare con un allenamento costante della mente e del carattere; in un
atteggiamento interiore e una predisposizione nel far bene quello che stai
facendo. Come ha ricordato Giorgio Bocca: “Nel giornalismo come nel mestiere di
scrittore non c’è un metodo del genio né un costume del genio, c’è la somma dei
talenti e del lavoro. Solo chi sa lavorare come un artigiano, acquisendo con
fatica strumenti e tecnica, arriva alla padronanza totale dei mezzi
d’espressione”. In definitiva sono questi requisiti che hanno reso Oriana la
reporter che è diventata, è nota infatti la sua grande capacità di lavorare, la
meticolosità al limite del maniacale.
Ma c’è
dell’altro. E l’ho trovato nelle parole del professor Gnisci, nel suo saggio su
Ryszard Kapuscinski, il grande narratore-reporter dell’Africa, descritta in
quasi cinquant’anni di reportage e libri, sempre animato da un senso profondo
della sua missione umanistica. Votato in Polonia, la sua terra, quale il più
grande reporter del ventesimo secolo, verrà ricordato come colui che ha
traghettato con perizia il giornalismo-reportage sulle sponde della
letteratura. “La professione del reporter incarnata da Ryszard Kapuscinki” dice
Gnisci "non assomiglia in nulla a quella del dandy vagabondo, dell’uomo di
mondo, del conferenziere cosmopolita; è più vicina per lui, a
quella dello scrittore (irrequieto come Chatwin ovviamente, e all’opposto di
Proust), dello storico e dell’antropologo. Ryszard Kapuscinski è un reporter
che coltiva la coscienza che ‘conoscere il mondo, [...], richiede uno sforzo che assorbe tutte le facoltà dell’uomo’. Il reporter sta al mondo andandogli incontro
per viverlo ogni volta in ogni suo luogo attraverso uno stress estremo ma
professionale di tutte le sue capacità conoscitive ed esistenziali, che
somiglia paradossalmente allo satori
zen, messo a frutto e al servizio della scrittura del mondo e della sua
comunicazione per tutti”.
Trascrivo queste
poche righe che Ryszard tratteggiò nel suo primo viaggio in India, perché
rendono con eloquenza lo spirito che lo anima. Ryszard allora era uno squattrinato, ma
orgogliosissimo, corrispondente della Pravda;
atterra a Dheli e giunge nel modesto alberghetto che le finanze gli
permettevano: “Nella camera entrò un uomo scalzo, portandomi una teiera e
qualche biscotto. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Senza
una parola posò il vassoio sul tavolo, si chinò e uscì in silenzio. Nel suo
comportamento c’era una tale cortesia naturale, un tale tatto, qualcosa di così
sorprendentemente delicato e dignitoso, che provai subito un senso di
ammirazione e rispetto nei suoi confronti”. [In viaggio con Erodoto, UEF, p.23]
Ho fatte mie
queste belle parole di Ryszard in un suo discorso rivolto a giovani studenti
sul lavoro del giornalista: “Credo che per fare del buon giornalismo, si debba
innanzi tutto essere degli individui buoni. I cattivi non possono essere dei
buoni giornalisti [e delle buone giornaliste]. Solo l’essere umano buono cerca
di comprendere gli altri, le loro intenzioni, i loro interessi e le loro
tragedie e diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino.
Ritengo, come dimostrano del resto sia l’esperienza che la storia, che i bravi
reporter siano persone modeste, capaci di rispetto e di stima per gli altri.
Essere reporter significa prima di tutto rispettare la privacy, la personalità
e i valori degli altri. In ultima analisi, la vita del reporter e il risultato
del suo lavoro, dipendono da quello che gli altri gli diranno o faranno per
lui”.
Buone cose a
tutte voi e tutti voi; e che la vita continui a regalarci la fede nel sostegno
reciproco.
Fiorella Connie Carollo
Fiorella Connie Carollo
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